“Volevo essere un duro”, ma Lucio Corsi resta se stesso:

surreale, romantico, profondamente autentico.

Difficile trovare nel panorama italiano un artista così fedele al proprio immaginario e, al tempo stesso, capace di rinnovarlo disco dopo disco. Lucio Corsi, cantautore toscano classe ’93, torna con un nuovo album che arriva a pochi mesi dalla sua (brillante) partecipazione al Festival di Sanremo 2025. In un contesto musicale dove i riflettori si accendono e si spengono in un battito di social, Corsi si prende il suo tempo, con nove brani che sembrano voler parlare più al cuore che alla moda.

Volevo essere un duro è il titolo ironico e programmatico di un lavoro che, più che mostrare i muscoli, scava nella fragilità, nell’infanzia, nella memoria e nelle amicizie sgangherate. È un disco che profuma di sigarette nascoste nello zaino, di biglietti del cinema stropicciati, di sogni che non hanno bisogno di diventare adulti per esistere.

Dopo la favola spaziale di Cosa faremo da grandi?, Corsi cambia registro senza perdere il tocco: meno stramberie celesti, più quotidianità sognante, con una scrittura sempre più vicina al grande cantautorato italiano, ma riletta con il suo stile eccentrico e visionario.

Nel mare magnum di prodotti musicali intercambiabili e piattaformati, Volevo essere un duro arriva come un sussurro necessario, una parentesi fuori dal tempo che ci riporta a una scrittura personale, a tratti bizzarra, ma sempre profondamente consapevole. Lucio Corsi, il dandy toscano dal cuore glam e la penna sfuggente, dopo aver (immeritatamente) mancato la vittoria al 75° Festival di Sanremo, pubblica il suo nuovo lavoro sotto l’egida della storica etichetta Sugar. E conferma, con nove brani asciutti e senza ospiti, di essere uno dei pochi cantautori italiani capaci di parlare con autenticità anche quando gioca a far finta.

Fin dalle prime note di Tu sei il mattino – piccolo gioiello di scrittura melodica che avrebbe potuto far la fortuna di molti colleghi negli anni ’70 – si percepisce un cambiamento di tono rispetto al passato: meno fiaba, più carne e nervi. Corsi scende dal suo mondo incantato, appoggia a terra le metafore più infantili e si concede all’ironia agrodolce della realtà. Lo fa anche in Sigarette, brano scanzonato e squisitamente alla Ivan Graziani, che sembra indicare con precisione una delle coordinate principali del disco: un glam-pop d’autore sporco di provincia, con gli stivali impolverati e il cuore pieno di sogni che fanno male.

L’universo sonoro si fa più asciutto, eppure non rinuncia alla raffinatezza: Francis Delacroix è probabilmente il brano più emblematico in tal senso. Un valzer surreale di immagini e riferimenti che rimbalzano come palline impazzite: Don Chisciotte, Gengis Khan, Lolita, Wojtyla. Tutti convocati per popolare il mondo del protagonista, un amico forse immaginario ma verissimo nella sua carica emotiva. Un episodio riuscitissimo, che riecheggia sia il Graziani più onirico che il Rino Gaetano dei giorni migliori.

Certo, non tutto convince con la stessa intensità: Let There Be Rocko inciampa in una caricatura rock che convince solo a metà, mentre Situazione complicata paga una certa dipendenza da Lennon, senza però replicarne la profondità. Ma sono peccati veniali, in un album che non cerca la perfezione quanto piuttosto la sincerità.

Il concept che lega i brani – un’infanzia rievocata con occhi adulti, un realismo che si nutre di fantastico – trova una coerenza inedita nella discografia corsiana. Non è più il tempo delle favole con le stelle sugli alberi: è il momento dei marciapiedi, delle amicizie scolorite, delle piccole epifanie metropolitane. La frase con cui l’artista stesso descrive il disco – “Ho cercato di trovare il sogno non fuggendo nel cielo ma strisciando sui marciapiedi” – è la chiave di lettura più limpida e disarmante dell’intero lavoro.

La splendida copertina firmata da Nicoletta Rabiti, madre dell’artista e presenza silenziosa e costante dell’estetica corsiana, suggella il progetto con un’immagine intima e artigianale, coerente con l’anima del disco.

In definitiva, Volevo essere un duro non ha la potenza dirompente e favolistica di Cosa faremo da grandi?, ma si afferma come un album maturo, coraggioso nella sua semplicità e lucidissimo nel suo approccio fuori moda. In un’Italia musicale sempre più imbrigliata nella retorica dell’hype e dei numeri, Lucio Corsi resta un outsider poetico. E tanto basta per volergli ancora bene.

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